Raffaele Riefoli racconta il suo successo. E non solo
Il prossimo 8 novembre Raf festeggierà a Milano, al Forum di Assago, i primi 40 anni di Self Control. Una vita fa. Una vita quella che ha trascorso con la sua famiglia a Santa Margherita di Savoia. Al settimanale Sette parla del suo rapporto con suo padre. Un rapporto difficile. «Con mio padre ho vissuto due vite. L’infanzia, quando io e mio fratello non avevamo un buon rapporto, non si poteva neanche chiamare rapporto, eravamo terrorizzati, ma bisogna anche contestualizzare, erano anni in cui lo scappellotto era concesso, lo scappellotto educativo diciamo, anche se mio padre andava ben oltre questo, aveva la concezione che i ragazzi vanno educati con estrema rigidità, e quindi non c’era dialogo, era una distanza proprio siderale».
Anche per questa ragione a 17 anni ha deciso di andare via. «La situazione non era così drammatica da dover scappare, ci sono stati anche altri fattori, tra cui la voglia di conoscere altri posti, cercare di fare musica a tutti i costi e andarla a cercare dove si poteva fare». Poi c’è la seconda vita con suo padre.
Una vita felice iniziata «quando ha visto che me la cavavo, che mi sapevo mantenere da solo, perché la sua rigidità era dettata anche da una profonda insicurezza da parte sua perché non viveva tempi facilissimi dal punto di vista economico. Così – contiua a Sette – negli anni mio padre si è trasformato in un adorabile signore anziano e abbiamo iniziato a fare tante cose insieme, che a volte era anche solo guardarsi negli occhi, parlare, confidarsi quello che non abbiamo detto in tutti gli anni della mia adolescenza…». Diverso il rapporto con sua madre che era l’artista di famiglia.
Dal Punk al successo di Self Control ricorda di essere stato impreparato. «Si, impreparato, avevo finito il militare e non avevo capito tutto il successo che aveva avuto il brano, in promozione in radio, così mi trovo a Pistoia, per una trasmissione su RaiTre di Gianni Naso che aveva le anteprime musicali dell’estate, quelle che poi avrebbero fatto il Festival Bar per dire, io sono andato lì, mi dicono che mi avrebbero annunciato e io sento un boato e dico “vabbè, avranno annunciato qualche star” invece il tipo mi dice “vai, vai”, io esco, parte la base, comincio a cantare e il palazzetto va in delirio».
Ma Raf era impreparato anche con le fan. Erano tante e inaspettate almeno all’inizio: «La sera dopo il concerto ero solo, con la mia Renault 4, una valigia e come esco dal palazzetto mi trovo 100 ragazzine che mi rincorrevano e io, che ero timidissimo, sono scappato in macchina e ho messo in moto, con queste ragazzine dietro che mi inseguivano e urlavano, una scena tipo Beatles come A Hard Day’s Night».
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Mai perso il self control? La risposta a Sette è sì: «Ogni tanto torna fuori il terrone che c’è in me, quando provo un senso di ingiustizia, di torto subìto, allora sbrocco, perdo il controllo».
Riflessione: «Oggi non si potrebbe scrivere una canzone come Ti pretendo, senza essere frainteso, oggi ti possono dire che è una canzone che favorisce il macismo, ma all’epoca la scrivevi perché era un gioco, un gioco amoroso, oggi può venire fraintesa, collegata ai femminicidi…».
Facendo musica, la sua musica ha conosciuto Gabriella Labate la donna che nel 1996 è diventata sua moglie che era nel corpo di ballo mentre cantava. «Lei in realtà mi ha conquistato dopo, col tempo, ma quando ci siamo conosciuti mi sembrava di averla già vista e poi ho ricordato che mentre tutte le altre ballerine sfilavano davanti a me, tutte mi sorridevano, qualcuna ammiccava, lei neanche mi ha guardato, e questa cosa mi ha colpito, mi ha fatto capire che lei era diversa».
Tra le canzoni che sente sue c’è Infinito. Una canzone che ha dedicato a suo figlio. «Mio figlio era nato da pochi mesi, e c’era questo cielo d’agosto, io che di solito ho scritto canzoni sempre in luoghi un po’ chiusi, dove devi per forza immaginare, no, quella volta ho scritto una canzone ispirata da un cielo incredibilmente stellato».
Con loro «mi piaceva molto fare la lotta, sia con mio figlio che con mia figlia. Il gioco è che loro due dovevano riuscire a bloccarmi. E io glielo facevo credere, delle volte, alcune volte no… Era bello sentirseli addosso, per bloccarmi, quando dicevano “abbiamo vinto, abbiamo vinto!”». Ora sono grandi, ma «ogni tanto gli dico, “ma perché non facciamo un po’ di lotta?”».